Era il 25 maggio, un lunedì sera, Minneapolis, nel Minnesota. Una chiamata in centrale avverte un uomo sospetto di essere sotto effetto di stupefacenti.
Una pattuglia si reca sul posto, viene individuato l’uomo: è dentro un’auto, insieme a delle altre persone. Vengono fatti scendere e affiancati al muro. Le persone collaborano, senza creare alcun problema. George Floyd, l’uomo preso di mira, viene successivamente preso e portato dall’altro lato della strada, da un’altra pattuglia.
L’uomo cade a terra, ad un certo punto, perché “oppone resistenza”. Uno dei quattro poliziotti presenti, Derek Chauvin, posa il suo ginocchio sopra il collo dell’uomo sdraiato a terra, e lì ha inizio la fine di George.
“Non riesco a respirare, non riesco a respirare signore, la prego, non mi uccida”
George, inutilmente cerca di comunicare agli agenti la sua sofferenza, la sua agonia, mentre soffocava.
Dai svariati video, si apprende come il poliziotto stava col ginocchio sopra il collo dell’uomo afroamericano, non curante della sua richiesta di aiuto, con le mani in tasca. Non ha fatto niente per dieci minuti.
L’uomo, alla lunga, è morto. Un’enorme folla si è radunata accanto all’accaduto, ed i passanti stessi avvertivano “signore, l’uomo è morto! Guardatelo, non respira, controllategli il polso, ha il sangue che gli esce dal naso”, ma niente.
Arrivano i soccorsi, che trasportano l’uomo agonizzante sulla barella, e che morirà da lì a breve.
Il portavoce della polizia ha dichiarato l’accaduto come “un incidente medico”, in quanto, a detta, mentre il poliziotto continuava a premere sulla sua gola con insistenza, si era accorto che qualcosa non andava, ed i colleghi hanno chiamato i soccorsi. Ma, loro, non hanno fatto nulla.
Gli uomini sono inizialmente messi in congedo retribuito e, successivamente, licenziati.
Il sindaco della città, Jacob Frey, ed il vicepresidente del consiglio comunale hanno duramente criticato l’operato della polizia, affermando che quell’uomo non sarebbe dovuto morire e che essere neri negli Stati Uniti non dovrebbe equivalere a una condanna a morte.
Frey ha detto che l’agente dovrebbe essere incriminato: “Nelle ultime 36 ore mi sono arrovellato su una domanda, più che su qualsiasi cosa: perché l’uomo che ha ucciso George Floyd non è in prigione? Se lo aveste fatto voi, p se lo avessi fatto io, ora saremmo dietro le sbarre”.
Moltissimi i commenti, specialmente tra la NBA.
LeBron James apre le danze, posta su Instagram una foto che lo ritrae con la maglia “Non posso respirare”, una frase diventata simbolica nel 2014 a seguito dell’ennesima uccisione di un afroamericano.
Stephen Jackson, ex giocatore NBA e grande amico della vittima George Floyd, ha postato un video molto toccante: lacrime che hanno scosso la coscienza di molti, tanto quanto le brutali immagini dell’arresto.
Stephen Curry continua, sottolineando come la sua vita da uomo nero non abbia valore.
Il Presidente Trump chiede giustizia: ha chiesto al Dipartimento di Giustizia e all’FBI di accelerare le indagini sulla morte del povero uomo. “Giustizia sarà fatta”, twitta, definendo l’episodio molto triste e tragico.