Coronavirus e psicologia: perché non vogliamo più uscire di casa?

L’ansia di riprendere i ritmi precedenti e abituarsi a una nuova vita porta a vivere una Sindrome della Capanna.

Siamo nel pieno della fase due, dove tutte le attività sono stata ripristinate e la vita ha cominciato a scorrere come sempre.

 

Appresso ci portiamo la mascherina, il disinfettante in gel e le restrizioni, a cui dobbiamo stare attenti continuamente: niente assembramenti, niente mani sul volto o sulla mascherina, niente strette di mano o un abbraccio ai più cari, che spesso, in sovrappensiero, si può finire per dare, per sentire l’amaro e un bruciore allo stomaco dopo un abbraccio o, peggio ancora, all’abbraccio stroncato.

Questo comporta spesso a non gradire il ritorno alla normalità, a viverla in un modo completamente differente che ci fa sentire estranei nei confronti del mondo.

 

E’ definita “Sindrome della Capanna”, quella di cui soffrono le persone che hanno gestito talmente tanto bene il confinamento che il ritorno alla quotidianità genera molto più stress della quarantena stessa.

Le case sono diventate un rifugio, ci hanno tenuti al sicuro, lontani dal virus ma anche da qualsiasi tipo di avversità che possiamo incontrare nel mondo.

 

Le persone hanno cominciato ad avere maggior tempo per sé stesse, sono riuscite a gestire la vita sociale tramite le video-call, con aperitivi social annessi, hanno riscoperto hobby, aspirazioni, passioni, che la spesa si può fare da casa senza file e stress, che se si lavora al PC lo si può fare anche da casa, in smart working, ed addirittura l’attività fisica è fattibile in casa, è fantastica.

 

Il termine sindrome della capanna è stato coniato in quelle regioni degli Stati Uniti in cui il rigido inverno costringe gli abitanti ad una specie di letargo, sebbene non sia sempre condiviso dagli esperti. Un quadro sintomatologico comune anche nei guardiani dei fari, prima dell’automatizzazione, che si adatta perfettamente all’attuale situazione della quarantena.

 

Uno studio rileva che il 54% delle persone messe in quarantena evita le persone che tossiscono o starnutiscono, il 26% evita luoghi affollati e il 21% evita tutti gli spazi pubblici.

 

Ma non è agorafobia. L’agorafobia è una fobia vera e propria, che nasce in seguito a circostanze personali particolari e che richiede un accompagnamento terapeutico specifico per questo disturbo. 

La sindrome, invece, con il tempo sparisce o diminuisce con il normalizzarsi della situazione esterna o con l’adattamento alla nuova situazione.

 

Si può riconoscere grazie a queste caratteristiche:

Letargia: condizione tipica che porta con sé stanchezza, braccia e gambe intorpidite e difficoltà ad alzarsi al mattino;

Sintomi cognitivi come difficoltà di concentrazione e scarsa memoria;

Demotivazione;

Voglia di determinati cibi per placare l’ansia;

La paura di uscire, che spesso viene camuffata. Chi soffre di questa sindrome si limita a esprimere poca voglia di uscire perché sta bene in casa, dove c’è tutto quello di cui ha bisogno.

 

Gli aiuti per fronteggiare questa sindrome sono svariati, come semplicemente avvicinarsi al cambiamento gradualmente, riducendo il tempo dedicato al riposo quotidianamente, adottare un pensiero positivo e fiducia verso il prossimo, non rifiutare la compagnia e il confronto con le persone a noi care.

Non alimentiamo paura e ansia con il pensiero di aver perso il controllo della situazione, le emozioni che state provando sono del tutto naturali e comprensibili.

Accadde nel lontano 11 Settembre 2001, e l’economista José Carlos Dìez esprime a riguardo: “E’ successo anche a New York dopo l’11 settembre. Nelle settimane successive ci saranno molte persone che non usciranno e smetteranno di avere paura solo quando i morti a causa del virus scenderanno e i media smetteranno di parlare della pandemia a tutte le ore. Ci vorrà solamente del tempo”.

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